giovedì, settembre 07, 2006

Le morti bianche e gli invalidi del lavoro




Infortuni denunciati all’INAIL negli ultimi tre anni:
2003: 977.194 di cui n. 1.449 con esiti mortali
2004: 966.729 di cui n. 1.328 con esiti mortali
2005: 939.566 di cui n. 1.206 con esiti mortali.

Il progressivo calo del numero di infortuni non deve illuderci in quanto è stato riscontrato soprattutto nel lavoro agricolo più che in quello industriale, comparto il primo dove si è verificato un calo occupazionale regolare sia per il calo della produzione che per il continuo ricorso all’utilizzo di manodopera “irregolare”, attinta anche tra le fila degli immigrati clandestini.
Occorre tuttavia anche precisare che l’INAIL ha, per legge:
· l’obbligo di riconoscere anche gli infortuni subiti da quei lavoratori mai denunciati all’Ente dal datore di lavoro con conseguente evasione del premio relativo all’assicurazione obbligatoria; l’INAIL liquida il danno il cui importo viene poi richiesto in via di regresso all’azienda;
· la possibilità di agire in rivalsa nei confronti dell’azienda per quanto liquidato al dipendente pur regolarmente denunciato nel caso in cui per le lesioni subite dal lavoratore ovvero per la sua morte sia stata riconosciuta una responsabilità penalmente rilevante del datore di lavoro ovvero di un suo preposto da parte del Tribunale con conseguente emissione di una sentenza di condanna.
Per il primo caso, beninteso solo per le lesioni, nelle c.d. zone depresse, si verifica anche che alcuni datori di lavoro hanno trovato l’escamotage per evitare di dover pagare, in un’unica soluzione, somme alle volte anche notevoli in caso di liquidazioni da parte dell’INAIL di rendite vitalizie; il lavoratore infortunato viene fatto passare come vittima di un incidente stradale con la necessaria compiacenza di alcune cliniche private.
Per il secondo caso, soccorre legittimamente un’assicurazione privata, denominata “Rischi diversi”, che copre oltre che la responsabilità della impresa per i danni causati a terzi (RCT) anche quella per danni subiti dai propri dipendenti (RCO); verificandosi l’ipotesi di emissione della sentenza di condanna questo tipo di garanzia assicurativa mette al riparo il datore di lavoro dalla azione di rivalsa dell’INAIL, sopportata dall’impresa assicuratrice in uno al danno non coperto dall’INAIL quale il danno morale e tutte le eventuali spese incontrate nel corso del periodo di malattia.
Appare del tutto fondata l'ipotesi di ritenere alquanto fondata come questa garanzia assicurativa RCO sia per l’ imprenditore un incentivo a non predisporre le assai costose misure antinfortunistiche a tutela della salute dei lavoratori, in poche parole un risparmiare sulla pelle altrui.
E' da ritenere che le argomentazioni cui il titolare dell’impresa ricorre per verificare se sia o meno conveniente la stipula della RCO possano essere le seguenti:
1- la responsabilità penale è quasi sempre del preposto, ma se anche così non fosse una condanna con le lungaggini di questi tipi di processi diventa assai improbabile, subentrando la prescrizione del reato;
2- il risarcimento danni alla vittima fa carico all’Inail ed alla impresa privata di assicurazioni.

Come non pensare a quei ponteggi appena “appoggiati” sulle pareti degli stabili che si abbattono al suolo al primo colpo di vento nemmeno impetuoso, alla poca affidabilità di alcune paratie predisposte durante gli scavi, alla precarietà di molti impianti elettrici provvisori nei cantieri edili.
Se aggiungiamo poi che gli accertamenti preventivi sull’affidabilità o meno delle misure antinfortunistiche approntate nei cantieri sono alquanto rari ne consegue che il fermo dei lavori, le multe nel caso di gravi manchevolezze sono misure che, pur previste dalle leggi in materia, rimangono spesso e volentieri lettera morta.
Il Procuratore aggiunto della Procura di Torino, Dr. Guarriniello, aveva a suo tempo scatenato una giusta campagna contro l’inefficienza dei mezzi di protezione messi in atto da molte imprese e l’incuria di queste ultime nel predisporre adeguate informative ai dipendenti, anche a mezzo di cartellonistica all’interno delle aziende (segnalazioni delle vie di fuga ed il posizionamento degli estintori per il caso di incendio – l’elenco delle misure da seguire all’interno dei cantieri, ecc…) avendo accertato come alquanto carente fosse nei posti di lavoro l’informazione su questa delicata materia.
Ma oggi ?

Nel 2006 per i primi 8 mesi stiamo per raggiungere il pesante numero di 700 morti.
Il reiterarsi, in questi ultimi mesi, di infortuni mortali sui posti di lavoro ha riportato nuovamente alla ribalta delle cronache questo grave problema il quale, pur essendo stato affrontato più volte da vari governi, non ha mai avuto soluzioni decisive atte, nella pratica impossibilità di eliminarlo del tutto, quanto meno ad attenuare il numero di questi eventi luttuosi.
Senza voler considerare poi che, a latere, si verificano, purtroppo, anche infortuni gravemente invalidanti delle capacità fisio -psichiche di un enorme numero di lavoratori che prestano la loro opera in quelle che vengono definite “attività pericolose”.
E’ un problema innanzi tutto morale ed in subordine, è inutile nascondercelo, anche sociale perché ogni perdita di una vita umana od il verificarsi di un danno comportante una invalidità permanente di grado superiore al 50% corrisponde per l’intera comunità nazionale una sconfitta sul piano sociale mentre per le famiglie delle vittime nonchè per i gravemente infortunati un notevole danno morale, biologico ed economico non pienamente compensato da eventuali risarcimenti od indennizzi ovvero ancora dalle rendite erogate dall’Inail..
Non possiamo non sottolineare anche come sino ad oggi un invalido è stato, salvo rare eccezioni, considerato e trattato più come un individuo da compatire che da aiutare anche nel reinserimento nella vita sociale attraverso tutti i sistemi disponibili che pur esistenti, in alcune zone però solo sulla carta, non sempre vengono ben utilizzati in maniera congrua.
Quali, ancor oggi, le cause di questa lunga serie di infortuni mortali sul lavoro ?
Diverse sono le motivazioni che spesso sono tra loro collegate; le più frequenti:
1- mancata predisposizione delle misure di sicurezza necessarie dettate da precise norme di legge;
2- rari controlli da parte degli Enti preposti alla vigilanza;
3- preposti che all’interno del posto di lavoro non segnalano ai datori di lavoro le anomalie che presentano i macchinari, le impalcature, gli impianti elettrici e gli stessi locali in cui si svolge il lavoro, alle volte privi di areatori o di apparecchi segnalatori di pericolo ;
4- preposti che li segnalano a datori di lavoro che fanno orecchie da mercante;
5- mancata vigilanza all’interno sul rispetto delle norme antinfortunistiche, come l’uso degli elmetti, delle cinture da parte di chi lavora su ponteggi, calzature appropriate per evitare di essere investiti da scariche elettriche, tute speciali e maschere nel trattamento di gas o materie infiammabili;
6- la ripetitività di certe azioni che rendono il lavoratore sempre meno cauto nel rispetto dell’uso degli strumenti che ha a disposizione;
e così via, la casistica in materia è imponente e riuscirebbe arduo e difficoltoso predisporne una elencazione completa.
Occorre senza dubbio alcuno fare qualcosa per attenuare questa vera e propria piaga sociale che in Italia è particolarmente pesante tanto che in questo campo vantiamo un brutto record negativo: quello del 20 % degli infortuni mortali sul lavoro che si verificano nell’intera Comunità europea.

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