giovedì, aprile 10, 2008

Quirinale con vista

Furio Colombo

Giornalista e autore di molti libri sulla vita americana, ha insegnato alla Columbia University, fino alla sua elezione in Parlamento nell’aprile del 1996.
Oltre che negli Stati Uniti, ha viaggiato a lungo in Asia e in America Latina.
Ha scritto per molti giornali, da “Il Mondo” a “La Stampa”, a “The New York Review of Books” e ha realizzato decine di documentari e servizi giornalistici per la Rai.
Ha diretto l'Istituto italiano di cultura di New York dal 1991 al 1994 e inoltre “L'Unità” fino all’inizio del 2005.
Tra i suoi libri: America e libertà.
da Alexis de Tocqueville a George W. Bush, Baldini Castoldi Dalai 2005;
L' America di Kennedy, Baldini Castoldi Dalai 2004;
Manuale di giornalismo internazionale. Ultime notizie sul giornalismo, Laterza 1999;
La città profonda. Saggi immaginari su New York, Feltrinelli 1994.

Ho conosciuto personalmente Furio Colombo a Corsico dove era venuto per tenere, nella sua veste di candidato al Senato della Repubblica nelle elezioni del 2006,
un comizio elettorale.
Qualche battuta prima e dopo il comizio e poi un incontro più ristretto presso il salone dei DS.
Una persona saggia, riflessiva e competente come si conviene ad un professore universitario che venne chiamato in USA dove ha insegnato alla Columbia University scienza della comunicazione, il linguaggio del giornalista già sperimentato anche presso la RAI.
Dopo i vari attacchi rivolti dall’autoleader del partito del predellino al nostro Capo dello Stato non posso esimermi, come lo stanno facendo molti altri, a postare integralmente sul mio blog l’articolo che ha scritto per L’Unità, pubblicato in data
06 APRILE 2008
ancor prima della sparata dell’oramai sfiatato leader di Arcore.
TRA LUI E LA LIBERTA’
quella vera e non quella da lui pretesa c’è di mezzo un profondo abisso che non potrà mai essere colmato.In un regime democratico può salire al governo di una nazione sia un leader della destra che quello della sinistra.
In Italia non può essere così proprio per la sua presenza nell’agone politico.
Una autentica anomalia che, purtroppo, stiamo sopportando da anni, ma sino a quando ?
In una recente intervista su Sky news 24 ha nuovamente attaccato, definendola per l’ennesima volta come liberticida, la legge sulla “par condicio”, unica legge di tal tipo vigente in tutto il mondo !.
Né l’intervistatrice Maria Latella, né Ferruccio De Bortoli – direttore del Sole 24 Ore – né un'altra persona di cui adesso mi sfugge il nome perché più che chiedere un qualcosa continuava a sorridere hanno fatto presente al loquace – parlava sempre lui interrompendo a metà anche le domande rivoltegli dagli intervenuti – hanno avuto il coraggio di sparargli in faccia che la causa di quella legge era la necessaria conseguenza del suo pesante conflitto di interessi esistente nel ramo della comunicazione in generale.
Perché nessuno ha fiatato ?
Già, il perché; il coraggio di dire pane al pane e vino al vino l’ha fatto sparire proprio Belusconi, non solo attraverso il vendicativo editto bulgaro.
Eppure non eravamo in una trasmissione messa in onda da uno dei suoi canali o suoi satelliti né in RAI dove, attraverso i suoi piazzamenti, continua a dominare tranne che su RAI 3.
Il conflitto d’interessi


MA ECCO L’ARTICOLO PREANNUNCIATO
Quirinale con vista
di Furio Colombo
Uno strano evento ha attraversato la settimana politica italiana, con la complicità dei giornali e delle Tv che vi hanno dedicato ampio spazio.
Sono stati i colpi violenti, le manate maleducate al portone del Quirinale.
Berlusconi dice di essersi espresso male o di essere stato frainteso, e ha anche smentito, secondo il suo rigoroso modo di operare (la sua Repubblica è fondata sulla smentita).
Può anche darsi che gli si debba concedere l’attenuante delle condizioni estenuanti e della difficoltà di condurre - come sta dicendo - una campagna elettorale alla cieca in cui dice e ripete un’unica proposta, anzi una perentoria richiesta:
«Datemi il potere, e poi so io che cosa farne».
Però una cosa è chiara e neppure Bonaiuti, l’uomo che, secondo Berlusconi, «nei momenti difficili è sempre in bagno», ma che a noi pare molto efficiente, potrebbe smentire.
Questa cosa è l’affannosa ricerca, da parte dell’uomo di Arcore, non della porta di Palazzo Chigi, ma del portone del Quirinale.
La cosa fa differenza persino se non ci si abbandona all’incubo di Berlusconi che torna a governare.
Noi (noi, tutti gli italiani) sappiamo che, governando da primo ministro, Berlusconi ha violato tutte le regole possibili, scritte e non scritte, dalle buone maniere alle missioni impossibili.
Ha licenziato giornalisti italiani di aziende che non hanno niente a che fare con i poteri del premier.
Ha insultato parlamentari di altri Paesi sia da premier che da ministro degli Esteri ad interim.
Ha inventato una guerra in Iraq che per l’Italia non esisteva (su quella guerra il governo italiano non è mai stato consultato e non ha mai preso parte ad alcuna decisione), con regole di ingaggio che sono costate la vita a soldati italiani privi di protezione.
E adesso la Corte dei Conti ci fa sapere che una parte dei soldi destinata alla protezione dei soldati e all’assistenza alla popolazione civile è stata stranamente dirottata su altri bilanci su cui ora la corte sta indagando. Inoltre Berlusconi ha annunciato a raffica cose che non ha neppure cominciato a fare, come i 136 cantieri delle opere pubbliche, il ponte di Messina o la riforma «come un calzino» del ministero degli Esteri.
Adesso pensa al Quirinale.
Si dirà che il presidente della Repubblica in Italia non ha poteri.
Ma è proprio intorno a questa constatazione che l’incubo “ritorno di Berlusconi” diventa una minaccia istituzionale.
Stiamo parlando di un personaggio che, persino in buona fede, e anche a causa del vasto potere personale che gli conferisce la ricchezza e il completo dominio sulle comunicazioni italiane, è interessato al fatto, ma non al diritto.
Non al senso giuridico, meno che mai istituzionale, di ogni cosa che fa.
È interessato soltanto a ciò che - legale o illegale - va bene per lui.
Un politico tradizionale, anche se di destra, anche se privo di scrupoli, avrebbe agito dietro lo schermo dei suoi apparenti limiti decisionali per raggiungere scopi brutali come la cacciata dei «criminosi» Biagi e Santoro e Luttazzi dalla Rai.
E avrebbe raggiunto il non nobile fine della vendetta personale che gli stava a cuore, lasciando cadere altrove le responsabilità della decisione, protetta da uno schermo di forme e di apparenti espedienti procedurali.
Ora fate attenzione. Berlusconi non ci pensa due volte a divellere con le sue mani i paraventi di buone maniere che separano - e mantengono un poco al riparo - la presidenza della Repubblica dalla politica quotidiana e dai suoi colpi a volte clamorosi e volgari.
Sappiamo tutti che quei paraventi sono strumenti fragili che, tuttavia, hanno un compito che conta molto per le istituzioni e per i cittadini. Consentono al Capo dello Stato, proprio perché è un alto simbolo senza potere (o con pochi, limitati ma essenziali poteri come quello di designare il primo ministro o di sciogliere le Camere) di essere una garanzia per tutti, accettata e rispettata da tutti. Si tratta di un carattere difficilmente soppesabile, un po’ come le “divisioni del Papa” su cui faceva osservazioni sarcastiche Stalin.
Il Papa, infatti, non aveva divisioni, ma è stato il mondo di Stalin - che di divisioni ne aveva moltissime - a scomparire, non il mondo apparentemente indifeso del Papa.
* * *
Dunque i poteri non giuridicamente definibili, fatti di consenso dal basso e di responsabilità morale dall’alto, hanno un peso molto grande nella vita di un Paese. Per esempio sono un impedimento all’uso eccessivo, squilibrato o arbitrario di coloro che hanno effettivamente una certa dotazione di potere - come i primi ministri - e la usano male.
Ma se Berlusconi sceglie proprio adesso il momento di vendicarsi di Oscar Luigi Scalfaro, di Carlo Azeglio Ciampi, e - in uno strano modo preventivo, che sa di finta lode e di vero avvertimento - di Giorgio Napolitano, c’è una ragione piccola e una ragione grande.
La ragione piccola è che, qualunque sia la buona e consigliabile strategia di una campagna elettorale in cui persino per lui sarebbe bene essere più accorti, gli preme scaricare la sua malevolenza contro coloro che, con grande senso dello Stato, hanno contenuto, limitato o impedito i gesti di una quotidiana prepotenza che sono stati i principali snodi del modo di governare di Berlusconi, dalle leggi personali a quelle per le sue aziende.
In particolare: come può, l’uomo di Mediaset che vuole governare ancora una volta le sue aziende e l’Italia, accettare la decisione di Ciampi di rinviare alle Camere la penosa legge sulle Comunicazioni scritta apposta per lui da un «antemarcia» del Popolo della Libertà, certo Gasparri, che si era arruolato nel Pdl di Berlusconi molto prima che il Pdl esistesse?
La ragione grande, quella a cui gli elettori, anche coloro che non si sentono chiamati dalle proposte e dalle idee del Pd dovrebbe prestare attenzione, è che - se diventasse Presidente della Repubblica - Berlusconi si comporterebbe secondo la sua visione dei fatti totalmente separata dal diritto.
Sei al Quirinale, il colle più alto e la magistratura suprema del Paese?
E allora che cosa ti importa di quali poteri sono prescritti e previsti e di quali non sono contemplati dalla Costituzione?
Prima di me - lui dirà - c’erano politici imbelli dediti alle buone maniere.
Lui è fattivo e farà.
Contro un presidente che esorbita esiste - anche nella versione italiana - una sorta di «impeachment».
Provate a immaginare di farlo con lui.
Primo, dirà che in realtà volete espropriare le sue aziende, che intanto faranno capo direttamente al Quirinale.
Secondo, avrà pur sempre abbastanza sostegno, acquisito alle urne o acquistato al mercato della debolezza umana, per impedirlo.
Terzo, da capo dello Stato ha diritto alle reti unificate, che sono il suo vero progetto fin da quando ha mandato alle varie Tv italiane quella famosa cassetta preregistrata in cui, con le dovute cautele e trucchi visivi, annunciava la sua «discesa in campo». Se riesce, già adesso, con poche telefonate, a controllare interi consigli di amministrazione di cui non fa parte e a intimidire intere testate giornalistiche in cui non ha investimenti diretti (c’è pur sempre il controllo di tutta la pubblicità) con le reti unificate farà miracoli di governo.
* * *
È importante non dimenticare un aspetto singolare, unico, del trascorso e infausto governo Berlusconi.
Ad ogni attacco o anche solo cauta critica sul suo operato o sull’operato del suo governo, l’uomo della libertà mandava a dire che ogni giudizio contro di lui era in realtà un giudizio contro l’Italia.
Per ogni polemica sul suo modo di governare evocava il tradimento.
E subito si associavano i suoi, nelle Camere e fuori.
Infatti, come sanno deputati e senatori del Popolo delle Libertà che, non avendo consentito sul cento per cento di tutto non sono stati ricandidati, gli ordini sono ordini, e dunque non sono ammessi «deviazionismi» di nessun tipo.
Una volta Umberto Eco ha notato che il modo di intendere il potere,
il rapporto con il partito e gli elettori di Silvio Berlusconi e la sua pronta e irritata condanna per ogni pur vago dissenso, è l’«ultimo comunismo».
La scorsa settimana, in un memorabile editoriale su la Repubblica, Eugenio Scalfari ha invitato i lettori a riflettere sul pericolo dei «dodici anni di governo» di Silvio Berlusconi, cinque come primo ministro in caso di vittoria alle urne, e sette da presidente della Repubblica.
Scalfari implicava, e io mi sento di dire: dittatore a vita. Là dove la dittatura non deve intendersi (sempre) come restrizione personale, alla vecchia maniera.
Ma certo gli avversari devono aspettarsi un monitoraggio elettorale stretto.
Per esempio la pratica di far spiare dai servizi segreti militari giudici e giornalisti, già sperimentata nel suo ultimo governo, non promette bene.
Dittatura vuol dire togliere la parola, salvo Blog e foglietti.
Ma intervenire su tutto a reti unificate sarà (sarebbe) il suo capolavoro: un mondo finto come i modellini computerizzati del ponte di Messina, mandati in onda a tutte le ore nei telegiornali italiani in modo da convincere che quel ponte già esiste e chi si oppone è un luddista o un pazzo.
Ma la vera controparte, il vero nemico che Berlusconi governante a vita preferisce è il traditore, l’anti-italiano che cerca di levare la voce del dissenso e tenta di dire la vera storia, opponendosi così - lui dice e dirà - non a lui ma all’Italia.
Qui occorre notare che - dal tempo della «discesa in campo» ad oggi - Berlusconi ha certamente cambiato e aggiornato i suoi modelli.
Ai tempi dell’arrivo di Berlusconi da Arcore si vedeva ben disegnata sul fondo l’ombra di Juan Peron.
Tuttora provoca una immensa meraviglia (certo nella cultura politica del mondo) ricordare che l’uomo più vecchio e datato del mondo politico europeo negli anni Novanta, un paleo-monopolista che ha fondato il suo impero su favori di governo e altri favori, senza mai alcun vero debutto sul mercato inteso come concorrenza e sfida dei migliori, è stato visto, anche in Italia, e anche a sinistra, come qualcuno che «ha capito la modernità» e che «porta modernità».
Nel frattempo però è avvenuto un drastico aggiornamento.
Il modello adesso è Putin.
Non bisogna dimenticare che uno dei suoi più attivi strumenti di denigrazione e di governo, la non dimenticabile commissione Mithrokin, il cui scopo era di dimostrare l’affiliazione di Prodi al KGB, ha agito con personale a pagamento della Russia di Putin, ed è incorso nella disavventura di alcuni non dimenticabili delitti (spaventosi persino in un esagerato serial Tv) come la morte pubblica, per avvelenamento di polonio, della spia Litvinenko, alla presenza del consigliere principale della Commissione parlamentare, certo «Prof. Sgaramella» presentato e retribuito come star della intelligence mondiale e finito in prigione per falso. Falso su tutto.
In altre parole, il Paese in cui è stata assassinata per eccesso di libertà la giornalista Olga Politoskaia è, attraverso l’amico Putin, il modello di comportamento del governo Berlusconi, del governo dei dodici anni.
Una presidenza della Repubblica priva di poteri formali è l’ideale per ospitare un potere forte la cui forza dipende dalla ricchezza, dalle aziende, dalla sottomissione dei dipendenti e dei tanti che aspirano a diventare dipendenti.
Tutto ciò che è stato detto fin qui sembra motivato esclusivamente da antagonismo politico.
Vi prego di rileggere.
Noterete che, togliendo l’aggettivazione negativa e i giudizi personali, certo di profondo dissenso e di incolmabile distanza, la storia che ho provato a tratteggiare, non cambia.
Nel futuro desiderato da Berlusconi l’Italia si impantana in una semidittatura fondata sul potere a senso unico della televisione, e servito dalla sottomissione di molti giornali. Il pericolo, oggettivamente, è grande.
* * *
A confronto con questo scenario, che mi pare purtroppo fondato, provo disorientamento e stupore ogni volta che si rinnova - sempre e solo da parte del Pd - l’esortazione, la speranza, o addirittura la preghiera, di fare qualcosa di «bipartisan».
A parte la legge elettorale, che è una disperata urgenza del Paese, una specie di pronto soccorso delle condizioni minime della democrazia, con cui è inimmaginabile che persino gli autori del misfatto (la «porcata» di Calderoli) rifiutino di misurarsi, non si trova traccia di una offerta, o anche solo di uno spiraglio d’apertura a destra, sul «fare insieme».
Né si capisce perché si dovrebbe desiderare.
A me non risulta che Barack Obama, ma anche la più pragmatica Hillary Clinton, abbiano mai pensato di coinvolgere George W. Bush e i suoi deleteri ideologi in qualche tipo di conferenza comune per il futuro degli Stati Uniti.
Il Congresso americano, come si sa, è spesso «bipartisan».
Ma è un Congresso (Camera e Senato) che non ubbidisce agli ordini del Presidente e agisce in piena autonomia.
Nessuno, tra loro, avrebbe accettato l’ordine di insultare in pieno Senato una persona come Rita Levi Montalcini, anche perché la grande stampa e Tv di quel Paese non avrebbe aspettato la denuncia indignata di un solo piccolo giornale come l’Unità per darne notizia e giudicare ignobile il fatto.
Perché allora in questa Italia, dove Berlusconi insulta ogni giorno Veltroni, e tutti gli altri si occupano di farci credere che Prodi è peggio di Attila, si deve fare ala riverente al passaggio della più stupida idea mai affiorata tra le bravate della destra?
L’idea è che i problemi della scuola italiana si risolvono se gli studenti si alzano in piedi quando entra un insegnante. Intitola il Corriere della Sera (2 aprile):
«In piedi quando entra il prof. Franceschini apre al Cavaliere».
E scrive: «La proposta di Berlusconi sembra avere un appeal bipartisan».
Perché?
Nella mia scuola fascista i bambini dovevano alzarsi in piedi quando entrava l’ispettore della razza.
Che rapporto c’è fra una proposta così modesta e irrilevante e la vera profonda crisi della nostra scuola, vigorosamente aggravata dalla Moratti?
Come dice Crozza, Franceschini, buona sera Franceschini.
Non potremmo avere un’idea migliore, e per giunta nostra?
Perché ci tormenta il bisogno di dare ragione a Berlusconi, visto che il suo torto verso l’Italia è così grave che ce lo ripetono da ogni angolo del mondo?

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