sabato, novembre 21, 2009

Il giullare antimafia

PULCINELLA

Si racconta che Pulcinella dicesse la verità ridendo e scherzando.

E più si sbellicava in risate o indugiava in una serie di riverenze nei confronti del personaggio di turno che prendeva di mira e più pesanti diventavano le sue battute ed i suoi doppi sensi.

Qualcuno oggi è divenuto il suo erede sia pure in maniera un po’ diversa nello stile ma non nella sostanza.

Ieri ho letto l'articolo, che più sotto vi propongo, il quale ha risvegliato in me tanti ricordi di vecchie angherie, chiamiamole così, subite per il solo fatto di fare quello che ritenevo fosse un mio sacrosanto dovere.

Imporre la legalità in tutte le operazioni amministrative proprio nel territorio che in questo articolo viene, non a caso, citato.

E la morte di un caro collega trucidato sulla soglia del portone di casa da mano mafiosa: un episodio più che inquietante perchè venne colpito un uomo giusto ed integerrimo, come ci avevano insegnato a vivere i nostri padri prima e poi i nostri maestri, i docenti universitari milanesi.

Ma oggi abbiamo fortunatamente

IL GIULLARE ANTIMAFIA

Giulio Cavalli

da Varese News

"Adesso siete collusi..."

Il coinvolgente spettacolo di Giulio Cavalli che, al teatro Nuovo, ha raccontato come la mafia stia conquistando silenziosamente le nostre città lombarde.

Fuori i nomi, e le facce, anche quelle, tutte sbattute sul palco, con le date, i numeri, e le accuse.

So i colpevoli ma non ho le prove, diceva Pasolini.

Giulio Cavalli , il teatrante che si occupa di mafia, porta invece proprio le prove:

atti giudiziari, trasformati in recital; dice tutto e non omette nulla.

E’ difficile in uno spettacolo teatrale, parlare della mafia, non quella epica siculo-americana, ma quella imprenditoriale, delle periferie milanesi, di gente che controlla cantieri, movimento terra, subappalti, che fa i soldi minacciando sotterraneamente sindaci e consiglieri comunali o, come accadeva a Lonate Pozzolo, che instaura un regime di terrore nei confronti dei bar, delle piccole attività del paese, le violenta con l’intimidazione, e poi prepara il terreno alla conquista del mercato, con metodi da guerriglia.

Non è facile fare teatro così, e infatti, lo spettacolo

«A cento passi dal Duomo»,

realizzato da Giulio Cavalli, coautore Gianni Barbacetto, musica (stupenda) di Gaetano Liguori, a tratti è difficile da seguire.

Giulio Cavalli però è bravo e coraggioso, recita con passione e convince, sa rendere il clima di quello che dice, e sono dati, nomi, facce, persino, di mafiosi della “ndrangheta”.

Sarà forse per questo che lo minacciano.

La sala del Cinema Nuovo, in viale dei Mille, giovedì' sera era piena, come non accadeva da tempo, dicono Giulio Rossini (Filmstudio 90) e Antonella Buonopane (Libera).

Per l’appuntamento varesino dello spettacolo (nella rassegna Un posto nel mondo), in prima fila, c’erano gli agenti della questura di Lodi, la città dell’artista, 32 anni, che solo per aver messo in scena i nomi delle cosche, basandosi sui documenti giudiziari, è tenuto sotto la minaccia di attentati, costante.

Eppure,

«anche la mafia ha paura se arriva a minacciare Arlecchino»

ha detto Cavalli in una recente intervista.

La tesi dello spettacolo è che al Nord, a Milano, si fa ancora finta di non capire che la mafia esiste; anzi, che Milano è quasi una capitale, una grande lavanderia, e che le «famiglie» hanno colonizzato il territorio.

Si parla di Sindona (appare sullo schermo una scritta, una dichiarazione del banchiere, sul legame tra la mafia e una piccola banca in via Mercanti),

di Calvi, dell’onestà del commissario liquidatore della banca privata Giorgio Ambrosoli, e della moralità del magistrato torinese Bruno Caccia, ucciso nel 1983, per le sue inchieste, contro i «picciotti».

La mafia c’è: Buccinasco, Corsico, Milano centro.

Vengono i brividi a sentire i nomi che sono corsi nelle inchieste della squadra mobile di Varese, o della procura di Busto Arsizio.

E Cavalli cita gli omicidi nei bar, Giuseppe Russo, ammazzato a Lonate, mentre giocava al videopoker, «sparato in faccia, tre volte», il 27 novembre 2005.

E cita Modesto Verderio, il leghista, ex assessore provinciale, che ai carabinieri, testimoniò alla magistratura, alla direzione distrattale antimafia, che una cosca stava minacciando l’intero paese.

Cavalli lo cita: l’inchiesta «bad boys», gli arresti, il legame con i Farao Marincola, san Cataldo, il santo calabrese, che scalzò Sant’Ambrogio.

Una metafora che strappa anche sorrisi, ma c'è poco da ridere.

«Adesso siete collusi - dice alla fine dello spettacolo - ...con la dignità».

20/11/2009

Roberto Rotondo

MA GIULIO, CHI TE LO FA FARE ?

Troviamo la risposta sul suo sito

La vertigine mi è arrivata ad un incontro organizzato contro le mafie, dopo che si era finiti come spesso mi capita ultimamente a parlare del programma di protezione nei miei confronti per il mio spettacolo Do Ut Des, riti e conviti mafiosi:

una ragazza tra il pubblico mi ha chiesto chi me l’avesse fatto fare di uscire dai binari comodi delle storielle teatrali per approfondire e scontrarmi mettendo in pericolo la mia sicurezza e quella della mia famiglia.

Lì per lì devo aver avuto in faccia una delle espressioni più sconsolate del mio repertorio.
C’è un malinteso di fondo in quello che è etichettato come “il teatro civile” di seconda generazione in Italia:

il mezzo teatrale si è trasformato in un alibi per mediare contenuti e posizioni. Allora forse sarebbe opportuno fermarsi tutti, operatori e critici, per riconsiderare l’obbiettivo di un’orazione civile.

Perché l’onda lunga del monologo in quanto commercialmente più appetibile (in un momento nero di mercato teatrale), l’abitudine della favoletta con sullo sfondo la tragedia recente e il suo bacino di affezionati, l’umorismo facile appoggiato sulla comodissima indignazione cronica, l’impacchettamento lacrimevole da scaffale o i funerali da palcoscenico non hanno nulla a che vedere con la funzione di informazione e approfondimento di uno spettacolo intellettualmente onesto.

E così si alimenta sempre di più quel teatro da cassetta che assomiglia nei tempi e nei modi alla Beneamata tivù.

Quando i famigliari delle vittime dell’incidente di Linate dell’8 ottobre 2001 hanno fatto irruzione nelle fasi di scrittura e preparazione del mio spettacolo per quella strage ci siamo subito resi conto delle unicità del modus che avevamo a disposizione:

il tempo e la vicinanza fisica del nostro pubblico per chiarire (uscendo da quest’informazione commerciale tutta a spot), una faccia e un corpo per accusare guardando fissi negli occhi, un posto fisico dove prendere una posizione.

Per questo mi piace pensare ad un teatro partigiano piuttosto che civile dove sia obbligo morale prendere una parte, svelare una tesi e appoggiare informazioni desuete o volutamente dimenticate:

un’azione teatrale di svelamento contro la normalizzazione controllata delle opinioni e delle sensazioni.

Oggi noi narratori abbiamo la grande occasione di metterci in rete con tutto quel giornalismo non normalizzato che si è definito e ha preso coscienza del proprio ruolo e diventare l’uno per l’altro strumenti di amplificazione e affilatori di contenuti. Recuperare la forza rovesciatrice delle Nuvole o della Rane di Aristofane, la giullarata non mediata dei cantastorie per far fruttare il momento teatrale come occasione ormai sempre più rara di comunicazione profondamente genuina e non manipolabile.
Non è un caso che abbia scelto come compagni di studi e scrittura per i miei spettacoli dei giornalisti, per rispettare e non sprecare

un’opportunità difficilmente ripetibile:

un palcoscenico che si prenda il lusso di fare luce.

Lasciamo i compromessi ai romanzi storici da autogrill, la strumentalizzazione lacrimevole alle trasmissioni tutte da ridere, l’esibizionismo del monologo agli onanisti d’accademia e il racconto scorrevole alle riviste da spiaggia.

Noi prendiamoci la responsabilità della fiducia di un pubblico intelligente alimentandola ad ogni battuta.

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